Benvenuto Cellini
Benvenuto Cellini
LA VITA
DI
BENVENUTO CELLINI FIORENTINO
scritta (per lui medesimo) in Firenze
1558
Questa mia Vita travagliata io scrivo
per ringraziar lo Dio della natura
che mi diè l'alma e poi ne ha 'uto cura,
alte diverse 'mprese ho fatte e vivo.
Quel mio crudel Destin, d'offes'ha privo
vita, or, gloria e virtú piú che misura,
grazia, valor, beltà, cotal figura
che molti io passo, e chi mi passa arrivo.
Sol mi duol grandemente or ch'io cognosco
quel caro tempo in vanità perduto:
nostri fragil pensier sen porta 'l vento.
Poi che 'l pentir non val, starò contento
salendo qual'io scesi il Benvenuto
nel fior di questo degno terren tosco.
Io avevo cominciato a scrivere di mia mano questa mia Vita, come si può vedere in certe carte rappiccate, ma considerando che io perdevo troppo tempo e parendomi una smisurata vanità, mi capitò inanzi un figliuolo di Michele di Goro dalla Pieve a Groppine, fanciullino di età di anni XIII incirca ed era ammalatuccio. Io lo cominciai a fare scrivere e in mentre che io lavoravo, gli dittavo la Vita mia; e perché ne pigliavo qualche piacere, lavoravo molto piú assiduo e facevo assai piú opera. Cosí lasciai al ditto tal carica, quale spero di continuare tanto innanzi quanto mi ricorderò.
LIBRO PRIMO
I.
Tutti gli uomini d'ogni sorte, che hanno fatto qualche cosa che sia virtuosa, o sí veramente che le virtú somigli, doverieno, essendo veritieri e da bene, di lor propia mano descrivere la loro vita; ma non si doverrebbe cominciare una tal bella impresa prima che passato l'età de' quarant'anni. Avvedutomi d'una tal cosa, ora che io cammino sopra la mia età de' cinquantotto anni finiti, e sendo in Fiorenze patria mia, sovvenendomi di molte perversità che avvengono a chi vive; essendo con manco di esse perversità, che io sia mai stato insino a questa età, anzi mi pare di essere con maggior mio contento d'animo e di sanità di corpo che io sia mai stato per lo addietro; e ricordandomi di alcuni piacevoli beni e di alcuni innistimabili mali, li quali, volgendomi in drieto, mi spaventano di maraviglia che io sia arrivato insino a questa età de' 58 anni, con la quali tanto felicemente io, mediante la grazia di Dio cammino innanzi.
II.
Con tutto che quegli uomini che si sono affaticati con qualche poco di sentore di virtú hanno dato cognizione di loro al mondo, quella sola doverria bastare, vedutosi essere uomo e conosciuto; ma perché egli è di necessità vivere innel modo che uno truova come gli altri vivono, però in questo modo ci si interviene un poco di boriosità di mondo, la quali ha piú diversi capi. Il primo si è far sapere agli altri, che l'uomo ha la linea sua da persone virtuose e antichissime. Io son chiamato Benvenuto Cellini, figliuolo di maestro Giovanni d'Andrea di Cristofano Cellini; mia madre madonna Elisabetta di Stefano Granacci, e l'uno e l'altra cittadini fiorentini. Troviamo scritto innelle croniche fatte dai nostri Fiorentini molto antichi e uomini di fede, secondo che scrive Giovanni Villani, sí come si vede la città di Fiorenze fatta a imitazione della bella città di Roma, e si vede alcuni vestigi del Collosseo e delle Terme. Queste cose sono presso a Santa Croce; il Campitoglio era dove è oggi il Mercato Vecchio; la Rotonda è tutta in piè, che fu fatta per il tempio di Marte; oggi è per il nostro San Giovanni. Che questo fussi cosí, benissimo si vede e non si può negare; ma sono ditte fabbriche molto minore di quelle di Roma. Quello che le fece fare dicono essere stato Iulio Cesare con alcuni gentili uomini romani, che, vinto e preso Fiesole, in questo luogo edificorno una città, e ciascuni di loro prese affare uno di questi notabili edifizii. Aveva Iulio Cesare un suo primo e valoroso capitano, il quali si domandava Fiorino da Cellino, che è un castello il quali è presso a Monte Fiasconi a dua miglia. Avendo questo Fiorino fatti i sua alloggiamenti sotto Fiesole, dove è ora Fiorenze, per esser vicini al fiume d'Arno per comodità dello esercito, tutti quelli soldati e altri, che avevano affare del ditto capitano, dicevano: - Andiamo a Fiorenze - sí perché il ditto capitano aveva nome Fiorino, e perché innel luogo che lui aveva li ditti sua alloggiamenti, per natura del luogo era abbundantissima quantità di fiori. Cosí innel dar principio alla città, parendo a Iulio Cesare, questo, bellissimo nome e posto accaso, e perché i fiori apportano buono aurio, questo nome di Fiorenze pose nome alla ditta città; e ancora per fare un tal favore al suo valoroso capitano, e tanto meglio gli voleva, per averlo tratto di luogo molto umile, e per essere un tal virtuoso fatto dallui. Quel nome che dicono questi dotti immaginatori e investigatori di tal dipendenzie di nomi, dicono per essere fluente a l'Arno; questo non pare che possi stare, perché Roma è fluente al Tevero, Ferrara è fluente al Po, Lione è fluente alla Sonna, Parigi è fluente alla Senna; però hanno nomi diversi e venuti per altra via. Noi troviamo cosí, e cosí crediamo dipendere da uomo virtuoso. Di poi troviamo essere de' nostri Cellini in Ravenna, piú antica città di Italia, e quivi è gran gentili uomini; ancora n'è in Pisa, e ne ho trovati in molti luoghi di Cristianità; e in questo Stato ancora n'è restato qualche casata, pur dediti all'arme; ché non sono molti anni da oggi che un giovane chiamato Luca Cellini, giovane senza barba, combatté con uno soldato pratico e valentissimo uomo, che altre volte aveva combattuto in isteccato, chiamato Francesco da Vicorati. Questo Luca per propria virtú con l'arme in mano lo vinse e amazzò con tanto valore e virtú, che fe' maravigliare il mondo, che aspettava tutto il contrario: in modo che io mi glorio d'avere lo ascendente mio da uomini virtuosi. Ora quanto io m'abbia acquistato qualche onore alla casa mia, li quali a questo nostro vivere di oggi per le cause che si sanno, e per l'arte mia, quali non è materia da gran cose al suo luogo io le dirò; gloriandomi molto piú essendo nato umile e aver dato qualche onorato prencipio alla casa mia, che se io fussi nato di gran lignaggio, e colle mendacie qualità io l'avessi macchiata o stinta. Per tanto darò prencipio come a Dio piacque che io nascessi.
III.
Si stavano innella Val d'Ambra li mia antichi, e quivi avevano molta quantità di possessioni; e come signorotti, là ritiratisi per le parte vivevano: erano tutti uomini dediti all'arme e bravissimi. In quel tempo un lor figliuolo, il minore, che si chiamò Cristofano, fece una gran quistione con certi lor vicini e amici: e perché l'una e l'altra parte dei capi di casa vi avevano misso le mani, e veduto costoro essere il fuoco acceso di tanta importanza, che e' portava pericolo che le due famiglie si disfacessino affatto; considerato questo quelli piú vecchi, d'accordo, li mia levorno via Cristofano, e cosí l'altra parte levò via l'altro giovane origine della quistione. Quelli mandorno il loro a Siena; li nostri mandorno Cristofano a Firenze, e quivi li comperorno una casetta in via Chiara dal monisterio di Sant'Orsola, e al ponte a Rifredi li comperorno assai buone possessioni. Prese moglie il ditto Cristofano in Fiorenze ed ebbe figliuoli e figliuole, e acconcie tutte le sue figliuole, il restante si compartirno li figliuoli, di poi la morte di lor padre. La casa di via Chiara con certe altre poche cose toccò a uno de' detti figliuoli, che ebbe nome Andrea. Questo ancora lui prese moglie ed ebbe quattro figliuoli masti. Il primo ebbe nome Girolamo, il sicondo Bartolomeo, il terzo Giovanni, che poi fu mio padre, il quarto Francesco. Questo Andrea Cellini intendeva assai del modo della architettura di quei tempi, e, come sua arte, di essa viveva; Giovanni, che fu mio padre, piú che nissuno degli altri vi dette opera. E perché, sí come dice Vitruio, in fra l'altre cose, volendo fare bene detta arte, bisogna avere alquanto di musica e buon disegno, essendo Giovanni fattosi buon disegnatore, cominciò a dare opera alla musica, e insieme con essa imparò a sonare molto bene di viola e di flauto; ed essendo persona molto studiosa, poco usciva di casa. Avevano per vicino a muro uno che si chiamava Stefano Granacci, il quale aveva parecchi figliuole tutte bellissime. Sí come piacque a Dio, Giovanni vidde una di queste ditte fanciulle che aveva nome Elisabetta; e tanto li piacque che lui la chiese per moglie: e perché l'uno e l'altro padre benissimo per la stretta vicinità si conoscevano, fu facile a fare questo parentado; e a ciascuno di loro gli pareva d'avere molto bene acconcie le cose sue. In prima quei dua buon vecchioni conchiusono il parentado, di poi cominciorno a ragionare della dota, ed essendo infra di loro qualche poco di amorevol disputa; perché Andrea diceva a Stefano: - Giovanni mio figliuolo è 'l piú valente giovane e di Firenze e di Italia, e se io prima gli avessi voluto dar moglie, arei aúte delle maggior dote che si dieno a Firenze a' nostri pari - e Stefano diceva: - Tu hai mille ragioni, ma io mi truovo cinque fanciulle, con tanti altri figliuoli, che, fatto il mio conto, questo è quanto io mi posso stendere -. Giovanni era stato un pezzo a udire nascosto da loro, e sopraggiunto all'improvviso disse: - O mio padre, quella fanciulla ho desiderata e amata, e none li loro dinari; tristo a coloro che si vogliono rifare in su la dota della lor moglie. Sí bene, come voi vi siate vantato che io sia cosí saccente, o non saprò io dare le spese alla mia moglie, e sattisfarla alli sua bisogni con qualche somma di dinari manco che 'l voler vostro? Ora io vi fo intendere che la donna è la mia e la dota voglio che sia la vostra -. A questo sdegnato alquanto Andrea Cellini, il quale era un po' bizzarretto, fra pochi giorni Giovanni menò la sua donna, e non chiese mai piú altra dota. Si goderno la lor giovinezza e il loro santo amore diciotto anni, pure con gran disiderio di aver figliuoli: di poi in diciotto anni la detta sua donna si sconciò di dua figliuoli masti, causa della poca intelligenza de' medici; di poi di nuovo ingravidò e partorí una femmina, che gli posono nome Cosa, per la madre di mio padre. Di poi dua anni di nuovo ingravidò: e perché quei vizii che hanno le donne gravide, molto vi si pon cura, gli erano appunto come quegli del parto dinanzi; in modo che erano resoluti che la dovessi fare una femmina come la prima, e gli avevono d'accordo posto nome Reparata, per rifare la madre di mia madre. Avvenne che la partorí una notte di tutti e' Santi, finito il dí d'Ognisanti a quattro ore e mezzo innel mille cinquecento a punto. Quella allevatrice, che sapeva che loro l'aspettavano femmina, pulito che l'ebbe la creatura, involta in bellissimi panni bianchi, giunse cheta cheta a Giovanni mio padre, e disse; - Io vi porto un bel presente, qual voi non aspettavi -. Mio padre, che era vero filosafo, stava passeggiando e disse: - Quello che Idio mi dà, sempre m'è caro - e scoperto i panni, coll'occhio vidde lo inaspettato figliuolo mastio. Aggiunto insieme le vecchie palme, con esse alzò gli occhi a Dio, e disse: - Signore, io ti ringrazio con tutto 'l cuor mio; questo m'è molto caro, e sia il Benvenuto -. Tutte quelle persone che erano quivi, lietamente lo domandavano, come e' si gli aveva a por nome, Giovanni mai rispose loro altro se nome: - E' sia il Benvenuto -; e risoltisi, tal nome mi diede il santo Battesimo, e cosí mi vo vivendo con la grazia di Dio.
IV.
Ancora viveva Andrea Cellini mio avo, che io avevo già l'età di tre anni incirca, e lui passava li cento anni. Avevano un giorno mutato un certo cannone d'uno acquaio, e del detto n'era uscito un grande scarpione, il quali loro non l'avevano veduto, ed era dello acquaio sceso in terra, e itosene sotto una panca: io lo vidi, e, corso allui, gli missi le mani a dosso. Il detto era sí grande, che avendolo innella picciola mano, da uno degli lati avanzava fuori la coda, e da l'altro avanzava tutt'a dua le bocche. Dicono, che con gran festa io corsi al mio avo, dicendo; - Vedi, nonno mio, il mio bel granchiolino! - Conosciuto il ditto, che gli era uno scarpione, per il grande spavento e per la gelosia di me, fu per cader morto; e me lo chiedeva con gran carezze: io tanto piú lo strignevo piagnendo, ché non lo volevo dare a persona. Mio padre, che ancora egli era in casa, corse a cotai grida, e stupefatto non sapeva trovare rimedio, che quel velenoso animale non mi uccidessi. In questo gli venne veduto un paro di forbicine: cosí, lusingandomi, gli tagliò la coda e le bocche. Di poi che lui fu sicuro del gran male, lo prese per buono aurio.
Innella età di cinque anni in circa, essendo mio padre in una nostra celletta, innella quale si era fatto bucato ed era rimasto un buon fuoco di querciuoli, Giovanni con una viola in braccio sonava e cantava soletto intorno a quel fuoco. Era molto freddo: guardando innel fuoco, accaso vidde in mezzo a quelle piú ardente fiamme uno animaletto come una lucertola, il quale si gioiva in quelle piú vigorose fiamme. Subito avedutosi di quel che gli era, fece chiamare la mia sorella e me, e mostratolo a noi bambini, a me diede una gran ceffata, per la quali io molto dirottamente mi missi a piagnere. Lui piacevolmente rachetatomi, mi disse cosí: - Figliolin mio caro, io non ti do per male che tu abbia fatto, ma solo perché tu ti ricordi che quella lucertola che tu vedi innel fuoco, si è una salamandra, quali non s'è veduta mai piú per altri, di chi ci sia notizia vera - e cosí mi baciò e mi dette certi quattrini.
V.
Cominciò mio padre a 'nsegnarmi sonare di flauto e cantare di musica; e con tutto che l'età mia fussi tenerissima, dove i piccoli bambini sogliono pigliar piacere d'un zufolino e di simili trastulli, io ne avevo dispiacere inistimabile, ma solo per ubbidire sonavo e cantavo. Mio padre faceva in quei tempi organi con canne di legno maravigliosi, gravi cemboli, i migliori e piú belli che allora si vedessino, viole, liuti, arpe bellissime ed eccellentissime. Era ingegnere e per fare strumenti, come modi di gittar ponti, modi di gualchiere, altre macchine, lavorava miracolosamente; d'avorio e' fu il primo che lavorassi bene. Ma perché lui s'era innamorato di quella che seco mi fu di padre ed ella madre, forse per causa di quel flautetto, frequentandolo assai piú che il dovere, fu chiesto dalli Pifferi della Signoria di sonare insieme con esso loro. Cosí seguitando un tempo per suo piacere, lo sobillorno tanto che e' lo feciono de' lor compagni pifferi. Lorenzo de Medici e Piero suo figliolo, che gli volevano gran bene, vedevano di poi che lui si dava tutto al piffero e lasciava in drieto il suo bello ingegno e la sua bella arte: lo feciono levare di quel luogo. Mio padre l'ebbe molto per male, e gli parve che loro gli facessino un gran dispiacere. Subito si rimise all'arte, e fece uno specchio, di diamitro di un braccio in circa, di osso e avorio, con figure e fogliami, con gran pulizia e gran disegno. Lo specchio si era figurato una ruota: in mezzo era lo specchio; intorno era sette tondi, inne' quali era intagliato e commesso di avorio e osso nero le sette Virtú; e tutto lo specchio, e cosí le ditte Virtú erano in un bilico; in modo che voltando la ditta ruota, tutte le virtú si movevano; e avevano un contrapeso ai piedi, che le teneva diritte. E perché lui aveva qualche cognizione della lingua latina, intorno a ditto specchio vi fece un verso latino, che diceva: “Per tutti il versi che volta la ruota di Fortuna, la Virtú resta in piede”:
Rota sum; semper, quoquo me verto
stat virtus
Ivi a poco tempo gli fu restituito il suo luogo del piffero. Se bene alcune di queste cose furno innanzi ch'io nascessi, ricordandomi d'esse, non l'ho volute lasciare indietro. In quel tempo quelli sonatori si erano tutti onoratissimi artigiani, e v'era alcuni di loro che facevano l'arte maggiori di seta e lana; qual fu causa che mio padre non si sdegnò a fare questa tal professione. El maggior desiderio che lui aveva al mondo, circa i casi mia, si era che io divenissi un gran sonatore; e 'l maggior dispiacere che io potessi avere al mondo, si era quando lui me ne ragionava, dicendomi, che se io volevo, mi vedeva tanto atto a tal cosa, che io sarei il primo omo del mondo.
VI.
Come ho ditto, mio padre era un gran servitore e amicissimo della casa de' Medici, e quando Piero ne fu cacciato, si fidò di mio padre in moltissime cose molte importantissime. Di poi, venuto il magnifico Piero Soderini, essendo mio padre al suo ufizio del sonare, saputo il Soderini il maraviglioso ingegno di mio padre, se ne cominciò a servire in cose molte importantissime come ingegnere: e in mentre che 'l Soderino stette in Firenze volse tanto bene a mio padre, quanto immaginar si possi al mondo; e in questo tempo io, che era di tenera età, mio padre mi faceva portare in collo, e mi faceva sonare di flauto, e facevo sovrano, insieme con i musici del palazzo innanzi alla Signoria, e sonavo al libro, e un tavolaccino mi teneva in collo. Di poi il Gonfalonieri, che era il detto Soderino, pigliava molto piacere di farmi cicalare, e mi dava de' confetti e diceva a mio padre: - Maestro Giovanni, insegnali insieme con il sonare quelle altre tue bellissime arte - al cui mio padre rispondeva: - Io non voglio che e' faccia altra arte, che 'l sonare e comporre; perché in questa professione io spero fare il maggiore uomo del mondo, se Idio gli darà vita -. A queste parole rispose alcuno di quei vecchi Signori, dicendo a maestro Giovanni: - Fa' quello che ti dice il Gonfaloniere; perché sarebbe egli mai altro che un buono sonatore? - Cosí passò un tempo, insino che i Medici ritornorno. Subito ritornati i Medici, il cardinale, che fu poi papa Leone, fece molte carezze a mio padre. Quella arme, che era al palazzo de' Medici, mentre che loro erano stati fuori, era stato levato da essa le palle, e vi avevano fatto dipignere una gran croce rossa, quali era l'arme e insegna del Comune: in modo che, subito tornati, si rastiò la croce rossa, e in detto scudo vi si comisse le sue palle rosse, e misso il campo d'oro, con molta bellezza acconcie. Mio padre, il quali aveva un poco di vena poetica naturale stietta, con alquanto di profetica, che questo certo era divino in lui, sotto alla ditta arme, subito che la fu scoperta, fece questi quattro versi: dicevan cosí:
Quest'arme, che sepulta è stato tanto
sotto la santa croce mansueta,
mostr'or la faccia gloriosa e lieta,
aspettando di Pietro il sacro ammanto.
Questo epigramma fu letto da tutto Firenze. Pochi giorni appresso morí papa Iulio secondo. Andato il cardinale de' Medici a Roma, contra a ogni credere del mondo fu fatto papa, che fu papa Leone X, liberale e magnanimo. Mio padre gli mandò li sua quattro versi di profezia. Il papa mandò a dirgli che andasse là, che buon per lui. Non volse andare: anzi, in cambio di remunerazioni, gli fu tolto il suo luogo del palazzo da Iacopo Salviati, subito che lui fu fatto Gonfaloniere. Questo fu causa che io mi missi all'orafo; e parte imparavo tale arte e parte sonavo, molto contro mia voglia.
...
(Edizione: La Vita di Benvenuto Cellini
Nuova Universale Einaudi (149)
a cura di Guido Davico Bonino,1973)